giovedì 3 agosto 2023

BURQA QUEEN di Barbara Schiavulli

 BURQA QUEEN di Barbara Schiavulli

Ho appena finito di leggere un libro sulla storia della Cina che narra tra l’altro di immense stragi, addirittura del genocidio di uno sconosciuto popolo dell’Asia centrale. Si legge di trecentomila morti con l’interesse del curioso di storia, senza particolari emozioni se non un moto di stupore. Ma quando i libri, e lo sanno fare, riescono a farci identificare la persona che sta soffrendo, a volte la lettura diventa insostenibile, o per l’egoismo che ci fa rimanere nel recinto della comfort zone la si evita. E io sono quel lettore.

Quindi non è naturale per me aver scelto di leggere il libro di Barbara Schiavulli che racconta di tre donne che vivono sulla loro pelle e giocandosi il loro futuro il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan

(abstract dal Sistema Bibliotecario:La storia di tre donne dopo la riconquista del potere dei talebani in Afghanistan. Layla, Faruz e Farida, sono una giovane sposa, un'ex poliziotta e un'ex insegnante travolte dalle nuove regole del regime e immerse in una violenza senza precedenti da quando l'Occidente ha voltato le spalle alle donne afghane. Per 20 anni si erano rimboccate le maniche per costruire una società civile, ora uccisa, evacuata o nascosta. Le tre arrancano per sopravvivere un giorno dopo l'altro immerse nella disperazione di un genere che gli estremisti stanno cercando di cancellare. Hanno capito che ci sono solo due alternative: soccombere o reagire)

Ho voluto leggere questo libro di Barbara Schiavulli per diversi motivi, per il suo modo di fare giornalismo, sul posto, camminando sulle stesse strade di chi entra nel suo raccontare, per la Radio che dirige (Radio Bullets, che ascolto con minore costanza di quanto merita, per vicende della Associazione.

E’ stata una lettura coinvolgente, che ha suscitato l’interesse verso una realtà che conosciamo e non conosciamo allo stesso tempo. Sarebbe interessante discuterne con lei in Libreria

Il caso ha voluto che il giorno dopo aver letto il libro (lo si legge in un giorno) ho letto il post che trascrivo sotto (ma invito a cercare Barbara Schiavulli sui social per seguirla). Già il libro racconta una vicenda se non vera, summa di tante storie vere che immagino abbia conosciuto. Subito dopo precipitiamo nella vicenda vera e drammatica di Nadima. Ecco che il nome collettivo se non un volto assume una consistenza individuale. E mentre io scrivo comodamente queste righe Nadima vede il buio chiudersi sul suo futuro, senza avere una seconda possibilità di giocarsi la vita come merita di essere vissuta.

Forse è stupido, mi rimane la curiosità di conoscere dentro i processi mentali, l’humus sociale e il retaggio culturale che muove il talebano per essere appunto talebano.

Se mi si chiedesse un parere, io suggerirei con convinzione di leggere questo piccolo ma “tosto” libro. Ne vale la pena.

“Voglio morire”, la voce spezzata dal pianto che ogni tanto si ferma per respirare. “Non ce la faccio più e se questa è la vita che mi aspetta, non voglio viverla. E sei troppo lontano per potermi fermare”.

Comincia così un pomeriggio assolato in una Roma sempre più calda con l’olezzo dolciastro dei rifiuti non raccolti, che ti entrano nelle narici se solo osi tenere le finestre aperte. Fa troppo caldo per pensare, troppo caldo per convincere una giovane ragazza sana che la vita merita di essere vissuta. Chi sono io per dare certezze a chi non ne ha? Non ho neanche la religione dalla mia parte e forse, proprio a lei non sarebbe neanche il caso di nominarla.

Nadima, non è il suo vero nome ma non ha nessuna importanza come si chiama, la conosco da molti anni, non mi ricordo neanche quando ci siamo incontrate, sicuramente durante un’intervista, più giovane di me, ma con quell’aria vissuta che hanno tutte le donne afghane che la vita non l’hanno mai attraversata, se la sono dovuta conquistare con le unghie e i denti negli ultimi vent’anni. La vedo attraverso il video whatsapp che accorcia le distanze come se non fosse a 6000 km di distanza. Mi sembra di poter allungare la mano per poterla toccare. Vorrei afferrarla e farla uscire dalla mia parte del telefono.

Mi dice che i suoi vogliono che si sposi, che non possono più vederla disperarsi dalla mattina alla sera, che appena avrà un figlio le sue giornate saranno così piene e nuove che tutto il resto non avrà importanza. I figli hanno il potere di diventare una priorità assoluta, cancellano i sogni di carriera, il desiderio di viaggiare, quei grilli nei capelli che parlano di vedere le amiche e andare fuori a fare una passeggiata. Il dono dei figli sono una dittatura sopportabile che ti strappa alla vita quando non ce l’hai.

Il problema è che Nadima non vuole figli. Ha studiato. Aveva un lavoro. E non si capacita. Non tanto di tutte le “regole contro” che sono state imposte a quelle del suo genere, ovvero femminile, ma della cosa più importante di tutte non si capacita e che ci rende umani. Il motivo per il quale il mondo ha fatto rivoluzioni, la ragione per la quale le donne hanno resistito, combattuto, lottato: la libertà di scegliere.

La schiavitù che sia familiare, religiosa o politica è uno dei mali assoluti. E capisco il dolore di Nadima che mi dice che non vedrà mai il mare, che non entrerà mai in cinema, o andrà ad un concerto o entrerà in una libreria per comprarsi un libro. Penso che niente di questo è veramente necessario per sopravvivere, ma sappiamo tutti quanto sia indispensabile per vivere. E queste donne, rinchiuse nelle loro stesse case sotto gli occhi di familiari preoccupati ma incapaci di reagire, si sentono perse. Abbandonate, tradite. Sole. “Posso dirlo solo a te. Altrimenti i miei mi chiudono in camera se sentono parlare di suicidio”. E io non sono contenta di essere la custode dei suoi brutti pensieri. Non ne sono lusingata per un solo attimo. Perché mi sembra di non riuscire a fare mai abbastanza, di essere in un paese libero, ma di non poter fare niente di utile, a parte parlare, scrivere, disturbare, usare la mia rabbia per rompere l’indifferenza e scoprire che questa è un mostro indistruttibile. Come le zanzare, ne ammazzi una, e ne arriverà sempre un’altra. Siamo entrambe combattenti di una battaglia persa? Lei lotta per vivere, io per far si che la gente sappia che lei sta lottando.

Le parlo indossando una canotta, pantaloncini, un velo di trucco e i capelli ricci al vento del ventilatore perché ho deciso che ieri non li volevo lisci. Lei è nella sua manica lunga, nei jeans, ma solo perché è in camera sua, con l’elettricità che va e viene. È contenta perché è riuscita il giorno prima a caricare il cellulare. Si può essere felici di una cellulare carico? Piange, e ogni lacrima mi spezza quel cuore che con certe persone ho dovuto fermare. Perché a volta mi sembra di non riuscire a far capire o trasmettere cosa stanno passando queste persone.

Dove una mela è gioia, dove una giornata senza sentire il rumore dei pickup della polizia talebana è meno ansia. Dove un fiore che spunta tra le piastrelle del cortile è una breaking news della famiglia. “Non si parla che di soldi, di come trovare da mangiare, di come trovare marito, di come trovare le medicine. Stiamo sempre a cercare qualcosa. Credimi, non ne posso più. Non è questa la vita che una persona dovrebbe fare, non dico essere liberi e ricchi, ma avere un attimo di tregua. Pensate che la guerra sia finita? Ne è cominciata una ben peggiore e ci sta mangiando dentro. Sento i miei organi morire, sento la mia anima sbriciolarsi, sento la vista offuscarsi e il cervello smettere di funzionare. Sono un’insegnate, avrei dovuto ispirare le giovani ragazze e invece non riesco neanche a convincere me stessa”.

Le dico che tanta gente sta parlando di Afghanistan, sta cercando di svegliare le persone, ma che ci vuole tempo, e lei deve resistere fino a che quel momento arriverà. “Sei mesi? Un anno? Cinque anni? Devo fare bambini per distrarmi? Devo sposare un uomo per mangiare? Devo pulire la casa per tenere gli occhi impegnati e impedirmi di piangere dalla mattina alla sera? Che ho fatto di male per meritarmi questo? Che abbiamo fatto di male tutte noi?”. Anche i miei occhi si riempiono di lacrime, ma non cederò al suo dolore, dovrà cedere lei alla mia forza e attingervi.

Le dico che il mondo è fatto male, che ci sono persone che sono oppresse per il colore della pelle, perché vengono da altri paesi. Le dico che qui chi fugge da un paese in guerra, finisce in prigione. Persone uccise per la loro religione o la loro simpatia politica. Ma niente la consola. Come potrebbe? Provo a dirle che anche se nessuno le aiuterà, dovranno trovare la forza per resistere, lottare. Mi sento stupida mentre lo dico, ma so che è vero. Sono sole. Ma sono sane, forti, intelligenti, e disperate. E la voglia di morire per liberarsi dalla prigionia devono trasformale in lotta.

Tutto quello che c’era da prendere in Afghanistan, l’Occidente lo ha depredato, il resto lo sta prendendo chi è rimasto. E sappiamo bene che mai le persone sono sul piatto della bilancia di un mondo di uomini che fanno solo i loro interessi. Le guerre non si fanno per salvare le persone. La pace lo fa. Ma che glielo dico a fare a Nadima? Che ha solo fame e voglia di essere libera.

Le racconto la favola della bella addormentata nel bosco, riveduta e corretta, le dico che deve entrare in standby, congelare la mente e il cuore e andare avanti per inerzia. Che prima o poi qualcosa succederà, magari una pandemia, un cataclisma, un’altra guerra. “Devo sperare nel peggio per liberarmi?”. L’importante è che non smetti di sperare, amica mia.

E cade la linea: batteria finita.

Nessun commento:

Posta un commento